L'aria irrespirabile satura di umidità, il terreno fradicio che inghiotte ogni passo come una morte per fame, la natura ostile e, infine, la palude remota. Quella in cui hanno investito per comporre Fire Eater. Quella in cui hanno lasciato qualche traccia.
Tracce che possono parlare.
Sei uomini armati fino ai denti di strumenti, un settimo più veloce, appesantito solo da un microfono. Hanno lasciato la vegetazione inospitale, lasciando dietro di sé una serie di impronte. Mentre cerchiamo di seguirli, l'afrobeat che li ha resi facili da individuare ora si dissipa in una nebbia fluttuante.
Quindi, dobbiamo collegare i radar e cercare di catturare le onde vintage di apparecchiature che emettono più di un punto ma diversi. Siate attenti agli assoli jazz e alle scarificazioni funk, tanto quanto a ciò che potrebbe cantare e battere sui tempi di questi ritmi serrati. Perché la loro fusione è diventata uno stile personale tanto quanto ibrido, ed è per evitare di essere osservati dall'asfissia che hanno lasciato le acque stagnanti. Scappati dagli impianti audio delle auto o affissi sui muri ad annunciare i loro numerosi concerti, è in città che ora vengono individuati. Infiltrarsi è un compito arduo. Una traccia in cui bisogna evitare la vigilanza delle tastiere elettriche e velenose, sfuggire alle fiamme di rame e alle cesoie della chitarra. Entrare nel groove soffocante per godersi finalmente un passaggio puramente strumentale, intrufolarsi e ballare.
Progredendo fuori dalla mangrovia afro, Running The Way conserva comunque molti cavi ancora collegati. Il fondo dei jeans è ancora "Roforofo". "Muddy" in Yoruba.